domenica 13 marzo 2022

Pianto sulla terra russa. Il canto di Gamajun di Nikolaj Kljuev

Gamajun di Viktor Vasnecov

Il canto di Gamajun

Giunte ci sono notizie amare.

Che l’onda dell’Aral è melma morta,

Che rare sono le cicogne in Ucraina,

Che più non freme il lino di Mozdok,

E nel luminoso deserto di Sarov

Scricchiolano sotterranei timoni!

Notizie ci han portato le nuvole scure,

Che la Volga blu è sempre più bassa,

E sul Kerženec i malvagi bruciano

Cremlini di verdi conifere,

Che, fumigando, i campi di Suzdal’

partoriscono monconi e licheni!

Ci avverte infine delle gru

l’ultimo volo nuziale,

È distrutta la covata dei fringuelli

Dall’oscura plica e da avidi afidi,

Solo alle russole ronzano rochi

I longevi calabroni pelosi!

Notizie nere ci sono arrivate,

Che non c'è più la terra natia,

Come non ci sono pruni in ottobre,

Quando l'oscurità nel cortile

considera il cuore un’ascia,

Per riscaldare la casa gelata,

Eppure. all’ascia ribelli,

I tronchi ululano alla luna.

E al cuore fa male arrestarsi,

E in casa c’è l’amico, la madre canuta!..

Ah, è terribile crocifiggere il canto!

Ci han bruciato l’anima le notizie,

Che non c'è più la terra nativa,

Che l’onda dell'Aral è melma morta,

In Ucraina tace Hrytsko,

E il Nord - cigno di ghiaccio -

Rifluì in un'onda senza casa,

Per raccontare alle navi,

Che non c'è più la terra natia!

                                        1934

Sono molti i pianti sulla rovina della terra russa. Questo che traduco qui è il Canto di Gamajun, l'uccello veggente del folclore russo, le cui profezie sono difficili da cogliere perché sempre accompagnate dal fragore delle tempeste. Il Gamajun di Kljuev canta, le tempeste ci assordano e non ci lasciano sentire, ma sprazzi del suo grido profetico ci arrivano lo stesso.

sabato 11 aprile 2020

La Settimana santa con Živago (Sabato Santo)

7/ Sabato Santo: Nella Settimana Santa di Boris Pasternak

Chiesa di San Salvatore in Chora

 



Ieri tra le brume dell’incoscienza e l'annichilimento serpeggiava la necessit svegliarsi e alzarsi: risorgere. E' quello “sforzo di risurrezione” di cui parlano gli ultimi versi della poesia di Živago, La settimana santa. E' la ripresa del canto liturgico del Sabato Santo Che taccia ogni carne umana. Fa memoria del brano di Zaccaria (2, 13) che parla delle promesse di Dio a Gerusalemme: «Che taccia ogni carne umana in presenza dell'Eterno! poich'egli s'è destato dalla sua santa dimora».
Quello sforzo di resurrezione è ben dipinto negli affreschi del monastero di Chora (Istanbul) che mostra bene la faticaccia di Adamo ed Eva che escono dalla tomba, certo aiutati dalla mano potente del Salvatore, ma guardate loro, che movimento dinamico e sforzato per disincargliarsi dalla tomba!
Buona Pasqua, buon sforzo di liberazione!



NELLA SETTIMANA SANTA

Ancora intorno tenebra di notte
Ancora è tanto presto al mondo
Che in cielo non si contan le stelle,
E ognuna, come il giorno, brilla.
E se potesse la terra
Passerebbe la Pasqua dormendo,
Alla lettura del Salterio.

Ancora intorno tenebra di notte
E' tanto presto al mondo
Che per l'eternità si è stesa
La piazza dal crocicchio al canto.
E fino all'alba e al tepore
Manca ancora un millennio.
Ancora la terra è nuda e spoglia,
E nelle notti non sa come
Spiegare le sue campane
E dar eco ai cantori dall'aria libera.

E dal Giovedì Santo
fino a tutto il Sabato Santo,
L'acqua trapana le rive
E inanella mulinelli.
E il bosco è spoglio e scoperto,
E nella Settimana di Passione,
Sta come schiera di oranti,
Folla dei tronchi di pino.

Ma in città, in un piccolo
Spazio, come a un convegno,
Gli alberi guardano nudi
Tra le inferiate delle chiese.

E il loro sguardo è colmo d'orrore.
Si capisce la loro ansia.
I giardini escono dai recinti,
Vacilla l'ordinamento della terra:
Si seppellisce Dio.
E vedono una luce all'iconostasi
E il sudario nero e dei ceri la fila,
I volti in pianto:
E improvvisa la processione
Gli si para davanti con l' Epitaphios,
E le due betulle all'ingresso devono scostarsi.

E gira intorno allo spiazzo il corteo
Sul ciglio del marciapiede,
E dalla via porta sul sagrato
Primavera e chiacchiere di primavera
E un'aria sapida di ostie
E d'ebrietà primaverile.

E marzo sparge la neve
Sul sagrato alla folla degli storpi,
Come se l'Uomo fosse uscito
E portasse e aprisse il ciborio,
E tutto distribuisse, fino in fondo.

E il canto dura fino all'aurora,
E, singhiozzati a sazietà,
Dall'interno sommessi giungono,
Sugli spiazzi sotto i lampioni,
Il Salterio o gli Atti.

Ma tacerà a mezzanotte il creato e la carne,
Avendo udito le voci della primavera
Che, solo appena si faccia bello,
La morte si potrà vincere
Con lo sforzo della risurrezione.

venerdì 10 aprile 2020

La Settimana Santa con Živago (Venerdì Santo)


6/ Venerdì Santo. Lo zero della poesia


Nelle 25 poesie del ciclo di Živago non ce n’è una sul Venerdì Santo. Il ciclo è un cerchio, si apre e si chiude con il Getsemani, la solitudine di Cristo, l’accettazione della propria parte nella vita e l’occhio sulla Storia che scorre come un fiume al Suo cospetto. Si sente ovunque tangibile il mistero della morte, nelle pieghe della terra, e nelle stesse pieghe spunta turgida la spinta delle gemme cariche di vita. Ma nel momento della morte la poesia tace.
Solo una traccia rimane, nel testo del romanzo, di una poesia di Živago, concepita nel delirio della malattia e perduta:

«Non scrive un poema sulla resurrezione o sulla deposizione nella tomba, ma sui giorni che intercorrono tra l'una e l'altra. Scrive il poema Turbamento.
Aveva sempre voluto scrivere di come, nel corso di tre giorni, la bufera di nera terra verminosa assediasse, assalisse l'immortale incarnazione dell'amore, scagliandosigli addosso con le sue zolle e grumi, proprio le onde della risacca marina quando piombano sullo slancio e seppelliscono sotto di loro la riva. Così per tre gioni infuria, incalza e si ritrae la nera bufera di terra.
E due versetti rimati lo perseguitavano:
Felici di sfiorare e Bisogna risvegliare
Felici di sfiorare sono l'inferno e la decomposizione, e la putrefazione, e la morte e, tuttavia, assieme a loro, Felice di sfiorare è anche la primavera, e Maddalena, e la vita. E allora bisogna risvegliarsi. Bisogna risvegliarsi e alzarsi in piedi. Bisogna risorgere.»

giovedì 9 aprile 2020

La Settimana Santa con Živago (Giovedì Santo)


5/Giovedì Santo: L'orto del Getsemani di Boris Pasternak

 

Giovedì pulito, verde, bianco, grande, della Passione, del Mandato, e perfino rosa, per gli incomprensibili a me svedesi. Tanti sono i modi con cui le lingue hanno cercato il tratto saliente di questo giorno santo: il giorno in cui è istituita l'Eucarestia e la Memoria dell'Incarnazione, quando la memoria stessa si vuole incarnata e non si appoggia a parole o a precetti, ma a atti di carne come il mangiare e il bere.
Eppure se i nomi sono tanti vuol dire che ricchezza di senso c'è, ma anche incertezza nel definire.
Al mattino del Giovedì Santo, nel Mattutino ortodosso, si canta il tropario (un inno di poche frasi ripetute che di solito riassumono il senso della celebrazione, una sorta di condensato di festa, spesso incardinato sulla Vita del Santo del giorno). E, stupefacente svirgolata, il tropario di oggi ricorda il tradimento di Giuda, uscito quasi di corsa dall'Ultima Cena.
Tutta la giornata liturgica ruota attorno alla Cena, ma anche a Giuda che «vende chi lo aveva nutrito». Ma non è solo Giuda che vien meno all'immagine di amore e comunione dell'Ultima Cena. La liturgia ci consegna il momento in cui il dono si fa promessa, offuscandolo con ogni tipo di tradimento e mancanza. Il Male è anche qui, nelle pieghe più intime del Bene. L'Ultima Cena e la Lavanda dei piedi sono inserite un contesto di diffusa indifferenza, tradimento e rinnegamento. L'abbandono: tutti fuggono (Mt., 26,56).
Il dono non unisce, o se lo farà sarà molto più tardi. Nessun vogliamoci tutti bene: solo Giuda, Pietro che rinnega e il sonno dei discepoli. Le vergini stolte di cui Gesù aveva parlato qualche giorno prima sono loro.
L'universo incurante illumina il camminare di Gesù solo. Le strade si interrompono e non continuano nella Via Lattea, i piccoli brillii degli argentei ulivi cercano ma non riescono ad essere stelle. Burroni, muri, recinti. Ma da quella deserta, assoluta solitudine c'è quella volontaria discesa nella tomba venuta pericolosamente a redimere il corso dei secoli

L'ORTO DEL GETSEMANI

Noncurante, un brillio di stelle lontane
Illuminava la curva della strada.
La strada aggirava il Monte degli Ulivi,
In basso le fluiva di sotto il Cedron.

Nel mezzo la radura finiva in un burrone.
Oltre cominciava la Via Lattea.
Canuti ulivi argentei nell'aria
Provavano a incamminarsi lontano.

In fondo, c'era un orto, un podere.
Lasciati i discepoli al di là del muro,
disse loro: «L'anima è triste fino alla morte,
Restate qui e vegliate con Me.»

Rinunciò senza opporsi,
Come a cose avute in prestito,
All'onnipotenza e al dono dei miracoli,
E fu allora come i mortali, come noi.

La lontanzanza della notte ora
Era terra d'annientamento e non essere.
Lo spazio dell'universo era deserto
E solo l'orto un luogo di vita.

E guardando quelle nere voragini,
Vuote, senza principio né fine,
Perché il calice di morte da lui allontanasse
Sudando sangue pregò il Padre Suo.

Lenito dalla preghiera lo spasimo di morte,
Uscì al di là del recinto. Per terra
I discepoli, vinti dal sonno,
Giacevano tra l'erba sul ciglio.

Lui li destò: «Il Signore vi ha eletti
Per vivere i Miei giorni, e voi giacete come massi.
E' venuta l'ora del Figlio dell'Uomo.
Si consegnerà in mano ai peccatori.»

Così disse ed ecco dal nulla
Una folla di servi e una torma di vagabondi,
Fiaccole, spade e davanti: Giuda
col bacio del tradimento sulle labbra.

Pietro reagì con la spada agli sgherri
E un orecchio mozzò a uno di loro.
Ma sente: «Non col ferro si risolve la contesa,
Metti via la tua spada, uomo.

Forse che frotte di legioni alate
Non avrebbe qui schierato il Padre?
E allora, impotente a torcermi un capello,
il nemico si sarebbe disperso senza traccia.

Ma il libro della vita è giunto alla pagina
più preziosa d'ogni cosa sacra.
Ora deve compiersi ciò che fu scritto,
Lascia dunque che si compia. Amen.

Vedi, il corso dei secoli è un racconto oscuro
E può prendere fuoco in piena corsa.
In nome della sua terribile grandezza
Io fra volontari tormenti scenderò nella tomba.

Io scenderò nella tomba e il terzo giorno mi leverò,
E, come discendono le zattere i fiumi,
Per il giudizio, a me, come chiatte in carovana,
affluiranno i secoli dal buio.»


martedì 7 aprile 2020

La Settimana Santa con Živago (Mercoledì Santo)

4/ Mercoledì Santo: Maddalena II di Boris Pasternak


Nel Dottor Živago, Maddalena si riflette in una moltitudine di figure e immagini. Ma questo ora poco importa: nella sua ipostasi più profonda al di là della superficie autobiografica o narrativa, la Maddalena è il femminile (non c’entra qui il genere tout court), principio di apertura e di dono da un lato, ma anche di fisicità pesante, di legame con la materia. “Fa che sia scala di riscatto /La carne ingannatrice” pregava Ungaretti.
E se il Cristo pasternakiano è legato in special modo al Sabato Santo, all’esperienza del Getsemani, momento di passaggio tra la morte e la Risurrezione, la Maddalena in modo carnale e sensibile traghetta lo smarrimento del Sabato verso l’aurora domenicale, nello stupore dell’epifania e della gioia che sgorga dall’essere chiamati per nome, quando il Cristo risorto, giardiniere mancato, esclama:” Maria!” Lei è davvero risorta con Lui in quel momento di veggenza e mutuo riconoscimento.
Al centro della Settimana Santa il Femminino. Mercoledì. In modo poco esibito, quasi non detto (come tutta la teologia che riflette su Maria Maddalena, collaterale, fin apocrifa lungo la storia), le donne sono al centro di quel tempo concreto, scandito da ore e giorni come i nostri, ma assunto a mito potente in virtù della densità del dolore, del male che vi è colato. Tutto il dolore e il buio del mondo in quei giorni cattivi.
Il mercoledì, in russo sreda, centro, si incardina dunque sulla figura di Maria di Magdala e la liturgia ortodossa quel giorno fa un imprevisto scarto di lato e lascia parlare le donne, a piena voce, discorso diretto. Quel giorno nei templi risuona un tropario speciale, l’inno di Kassia, badessa del IX secolo, caso unico di donna autrice di inni liturgici bizantini, accolti nel canone. 

La Settimana Santa con Živago (Martedì Santo)


3/ Martedì Santo: Giorni cattivi di Boris Pasternak


La liturgia ortodossa ha tante letture per il Martedì Santo, ma una riprende il filo cronologico del cammino verso il Calvario: subito dopo l’episodio del fico, che ha un seguito il giorno dopo, nello stupore di Pietro, Gesù va Gerusalemme e viene coinvolto in una discussione con i farisei e i dottori della Legge (Marco, 11, 20-33). L’andare, il cammino, è tutto un muoversi questa passione, processione di passi pesanti: “Tuttavia, è l’atto del camminare la forma più antica di queste azioni ritmico-cinetiche; trovando la loro significazione nel corso del sole sotto la terra e per il cielo (scomparsa-apparizione della luce), il piede, il suo passo, l’andatura, vengono identificati con il ritmo” del cosmo (O.M Frejdenberg). Ed è a quel ritmo che la poesia conforma i suoi versi e i suoi piedi, a esso l’Uomo Cristo adatta i suoi slanci.
Da dove ti viene l’autorità, dalla Terra o dal Cielo? gli chiedono intriganti: «Neanch'io vi dico con quale autorità faccio queste cose». Non risponde Gesù, e fa bene: non si tratta di un’alternativa la Terra o il Cielo. Il miracolo, cioè ogni atto della Vita di Cristo, ma forse ogni atto della Vita di ogni uomo (scusami Gesù se ti spoglio della tua eccezionalità, solo così riesco a concepirti), viene dalla terra e dal cielo, uniti nel’aero celeste come nel greve, plumbeo terrestre. Come in cielo, così in terra. E qui Pasternak è il cielo che vede sottoposto alla maledizione della gravità.
Nei giorni cattivi della Passione ti pesa di più la cattiveria, l’immunità all’amore e il giudizio di spregio, ti pesa di più il male, non solo quello scoperto dei farisei con le loro manifeste cattive intenzioni, ti pesa il male che guizza nei cortili, tra i vicini, che serpeggia come un fremito nel gregge all’unisono. C’è tanto in questa poesia della situazione storica che Pasternak viveva nel 1946.
Un male sottile quasi innavvertibile sembra contaminare tutto, anche una vita scandita di miracolo in miracolo, fino a quell’ultimo, il più sconvolgente e scandaloso (il corpo decomposto che si leva), di cui, qui, nei giorni cattivi della Passione, è contemplato solo il lato oscuro, l’immersione nel sotterraneo, la discesa agli inferi e lo sgomento attonito della fiammella di luce, l’umile nostra candela, che non regge al confronto con la morte.


GIORNI CATTIVI

Mentre l'ultima domenica
Entrava a Gerusalemme,
Lo accoglieva frastuono d’Osanna,
Con i rami gli correvano dietro.

Ma i giorni erano più torvi e foschi,
I cuori immuni d’amore,
Con spregio i sopraccigli innarcati:
Ed ecco la postfazione, la fine.

Con tutta la sua plumbea gravità
Si stendeva il cielo sui cortili.
Cercavano prove i farisei
Guizzandogli davanti come volpi.

E dalle forze oscure del tempio
A carogne è dato in giudizio:
Con la stessa medesima foga
con cui acclamavano, maledicono.

La folla delle corti vicine
Sbirciava dai cancelli,
Si spintonava per veder come finiva
E sbatteva avanti e indietro.

E un mormorio passò dall’uno all’altro,
E le voci da ogni dove.
E la fuga in Egitto e l'infanzia
sovvenivano come un sogno.

Venne alla mente il pendio maestoso
nel deserto e il dirupo
da dove con l'impero dell'universo
Satana lo tentava.

E il banchetto nuziale a Cana,
E la tavola stupita del miracolo,
E il mare su cui nella nebbia
come su una secca raggiungeva la barca.

E la ressa dei poveri nel tugurio,
E la discesa con la candela nel sotterraneo,
dov’essa a un tratto s'era spenta sgomenta
Quando il resuscitato si alzava...


lunedì 6 aprile 2020

La Settimana Santa con Živago (Lunedì Santo)


Il fico maledetto, Dionisij (XV sec.)

2/ Lunedì Santo: Il miracolo di Boris Pasternak


L’episodio del fico maledetto nella liturgia ortodossa viene letto al Lunedì Santo.

E a Pasternak esso ispira  un mondo desolato, morto, congelato, dove l’attesa è immobilità rigida di morte.

L’albero senza frutto incontra Dio. L’uomo incontra il suo destino e l'esito non è scontato. Il miracolo è un fulmine che ti schianta. Niente di consolatorio.


IL MIRACOLO



Lui da Betania andava a Gerusalemme,

Era dalla tristezza e dai presagi oppresso.

Arso era un cespuglio di spine sul pendio,

Fermo sulla capanna stava il fumo,

L'aria era bollente e immobile il giunco,

E del Mar Morto la calma era piatta.



E, con amarezza più amara del mare,

Lui se ne andava con una piccola folla di nubi

per via polverosa verso qualche riparo,

Andava in città dai discepoli riuniti.



E tanto immerso era nei suoi pensieri,

che scorato il campo prese profumo d'assenzio.

Tutto si tacque. Stava lui solo nel mezzo.

E il luogo giaceva inerte in oblio.

Tutto si confondeva: il calore e il deserto,

e le lucertole e le fonti e i torrenti.



Un fico si ergeva poco lontano

senza frutti, solo rami e foglie.

E lui gli disse: «A qual scopo sei fatto?

Che gioia nel fusto tuo mi è data?



Io ho sete e fame, e tu sei fiore infecondo,

e incontrarti dà meno gioia del granito.

Oh, qual sterile oltraggio sei tu!

Resta così fino allo scader degli anni.»



Passò per il legno il fremito del giudizio,

come scintilla di lampo nel parafulmine.

E il fico si fece tutto di cenere.



Avessero avuto intanto un istante di libertà

le foglie, i rami, le radici e il tronco,

le leggi della natura sarebbero forse intervenute,

Ma un miracolo è un miracolo e il miracolo è Dio.

Quando siamo smarriti, lasciati аllo sbando,

Esso istantaneo ci coglie alla sprovvista.



domenica 5 aprile 2020

La Settimana Santa con Živago (Prima)

In questi giorni bui, nella settimana di passione di tanti, mi accompagno scandendo i giorni con la poesia di Pasternak.
Serafima Blonskaja. Bambine. La Domenica delle Palme (1900)


1/ La domenica della Palme di Aleksandr Blok (1906)

«L’arte è sempre e senza tregua dominata da due cose. Essa riflette instancabilmente sulla morte e crea così,   instancabilmente, la vita. La grande, la vera arte è quella che si chiama [Rivelazione] Apocalisse di san Giovanni e quella che vi aggiunge qualcosa» Il dottor Živago 


Queste riflessioni del giovane Jura  Živago spiegherebbero perché il motivo della Pasqua sia così radicato nella letteratura russa: I fratelli Karamazov, Il Maestro e Margherita, Il dottor Živago, ad esempio, sono tutti romanzi pasquali. La Pasqua con il suo carico di speranza si incarna anche nella letteratura e, come tutto quanto si faccia carta e inchiostro, conserva della vita solo un fruscio e qualche segno nero offerto alla nostra decodificazione.

E allora mi faccio accompagnare  in questa imminente Settimana Santa da Živago e dal suo dono poetico.

Prima però,  rimango alle soglie della settimana, alle soglie del romanzo.

Il prima…

Il prima del romanzo: quando concepisce la sua opera Pasternak è avvolto dall’atmosfera vissuta e restituita dai versi di Blok: il primo verso di questa poesia, Ragazzi e ragazze, è stato un titolo provvisorio del Dottor Živago.

Il prima della festa: il Sabato prima della Domenica delle Palme. Un fremito di anticipazione per una Festa che еssa stessa è tutta un’attesa, un effimero gioco di equilibrio dei due piatti della bilancia, pronti a inclinarsi bruscamente da un lato.

Il prima: il Sabato giorno prima. La vigilia della Domenica delle Palme, con i suoi presentimenti lontani (la primavera indovinata, la brezza), i timori oscuri (la pioggerellina e il focherello debole e in pericolo) preannuncia il mistero silenzioso e buio del Sabato Santo che non sa se ci sarà una Pasqua.

E intanto Blok riporta mistero e silenzio nel tran tran quotidiano dei preparativi della Festa. Il quotidiano del tepore famigliare in tutti i diminutivi affettivi della poesia russa (in ogni strofa, tranne in quella finale, decisa, piena di intenzione) che in italiano ho reso poco per paura del lezioso.

Ragazzi e ragazze
Candele e palme
A casa han portato.

Focherelli si attizzano
I passanti si segnano
E sa di primavera tutto.

Una brezza di lontano,
Pioggia, pioggerella sottile,
Non spegnere il fuoco!

La Domenica delle Palme
Per prima m’alzerò domani
Per il giorno santo.

venerdì 15 novembre 2019

La prendo larga per presentare il mio nuovo librino


Nel suo bellissimo libro sull’Etica (Bompiani, 1969), Dietrich Bonhoeffer va oltre l’etica e ne ricerca le sorgenti. Non le trova nel dovere o nella legge, ma neppure nell’ideale del Bene, perché ogni volta che l’uomo vuole aderirvi in modo incondizionato gli si rovescia addosso “qualche cosa di estraneo, di inautentico, di artificiale, di fantastico e al tempo stesso di tirannico, senza che l’uomo ne sia stato veramente toccato nel suo intimo”. La ricerca di un Bene in sé contiene il tremendo rischio di trasformarsi “un Moloch a cui si deve sacrificare la vita e la libertà”, un’astrazione priva di rapporto con la vita e fuori dalla realtà storica. E queste parole sono firmate e validate dalla morte del loro autore, protagonista della resistenza tedesca, impiccato in un campo nazista, a pochi giorni dalla fine della guerra. Come guida del proprio operare, Bonhoeffer propone invece un forte riconoscimento “dell’abbondanza delle ragioni di vivere” e un continuo discernimento della realtà: saggiare il reale di volta in volta significa non avere poi regole certe valide costantemente: “La volontà di Dio non è un sistema di norme stabilito una volta per tutte, ma è sempre nuova e diversa… Il cuore, la ragione, l’osservazione e l’esperienza devono tutti partecipare a questa ricerca”. Per questo il famoso “Non giudicate e non sarete giudicate”, non è un appello alla prudenza o indulgenza, “è invece un colpo vibrato in pieno petto all’uomo che ha la conoscenza del bene e del male”.
Ma è possibile, nel tempo e nel limite, vivere al cospetto di quella volontà di Dio? “L’uomo può vivere soltanto delle realtà ultime? E’ possibile estendere, per così dire, la fede nel tempo?”. Tutta la vita Bonhoeffer risponde a questa domanda sul legame dell’ultimo con il penultimo che costituisce la sostanza della nostra vita. Identificarli è pericoloso, superbo e folle, negare il loro legame è disperante perché: ”Non vi è nulla di penultimo in sé, nulla che possa giustificarsi da sé come penultimo; una realtà è penultima solo a partire dall’ultima”.
Questo mi è sembrato un buon modo per presentarvi il mio nuovo librino, una traduzione dai Diari di Tolstoj dei suoi ultimi 3 anni. Lev Tolstoj, Pensieri ultimi. Parole penultime. Dai Diari 1908-1910, edizioni Diabasis, collana La Ginestra (I classici dell'individualismo solidale), pp. 205, € 13.

sabato 2 novembre 2019

Assedio/1 Scrivere del cerchio: la Leningrado di Lidija Ginzburg. Uno stralcio della mia recensione sull'"Indice dei libri del mese" di novembre


Leningrado. Memorie di un assedio di Lidija Ginzburg (1902-1990), tradotto e introdotto da Francesca Gori, è il nuovo titolo della collana “Narrare la memoria” ideata da Memorial Italia. Sotto il suo testo, pubblicato per la prima volta nel 1984, l’autrice ha apposto una triplice data «1942-1962-1982», a testimonianza non solo delle difficoltà di pubblicazione, ma anche di tutto l'instancabile lavoro di limatura durato quarant'anni.[...] La Leningrado dei leggendari novecento giorni dell’assedio, tra il settembre 1941 e il gennaio 1944, è innanzitutto gorod-golod, città fame. La fame descritta da Ginzburg, con i suoi riti e la sua routine, tuttavia, non è solo espressione di un bisogno fisico, è l’essenza intima della realtà vissuta dalla città col suo tempo che sgocciola via la massa corporea dei suoi abitanti, in una tragica normalità fatta di norme atte a organizzare deperimento e morte.
[...] L’uomo dell’assedio, infatti, è un individuo dall’esistenza nuda, ma ha uno scopo: sopravvivere, far scorrere il tempo e non morire, perché è un leningradese e resiste, in questo senso la sua lotta con la fame è percepita anche come un fatto sociale. L’individuo è una particella del corpo di Leningrado città, corpo nudo privato della sua carne, avamposto di una resistenza eroica e della propria morte al tempo stesso. È un individuo dalla vita pesante e dalla morte leggera, la morte del distrofico: “Una morte senza stupore: c’era un uomo e ora non c’è più” (p. 176), ben lontana dal processo tormentato descritto nella Morte di Ivan Il’ič da Tolstoj (l’autore più letto nella Leningrado assediata, anche per la sua particolare visione dell’eroismo scevra da ogni retorica). [...] Non è facile orientarsi nel panorama etico della vita quotidiana nell’assedio. Come scriveva Giorgio Agamben a proposito di Auschwitz, anche qui non abbiamo alcun “cartografo” di una nuova terra etica, benché il tema sia diventato materia di molti studi storici. Episodi di ferocia, cannibalismo e violenze inaudite si alternavano a momenti di condivisione e sacrificio. Pietà e crudeltà, indistricabilmente intrecciate insieme anche nel titolo di una delle prose ginzburghiane, sono un motivo costante nella descrizione dei rapporti umani della gente assediata, intrappolata senza scampo negli ingranaggi di un mostruoso ed efficace meccanismo di annientamento, tra bombe, gelo, fame e pericolose delazioni, quando ogni mese del primo terribile inverno aveva la sua caratteristica specifica: dicembre e le slitte coi cadaveri avvolti nei lenzuoli; gennaio e i numerosi cadaveri abbandonati per strada; febbraio e i cadaveri impilati ai bordi delle vie. Come in Primo Levi, il sentimento che prevale è la vergogna, vergogna perché la nuda sopravvivenza è già di per sé misura dell’insufficienza del proprio sacrificio. [...]